Parla la guerra.
Cosa ci insegna il tragico 7 ottobre 2023 un anno dopo
L’elevato costo del regolamento di conti ancora in corso per il brutale attacco terroristico di Hamas che colpì Israele cogliendo di sorpresa l’intelligence e il governo di Netanyahu è affrontato da Carmen Lasorella “Parla la guerra. Cosa ci insegna il tragico 7 ottobre 2023 un anno dopo”.
6 ottobre 2024
A un anno dal brutale attacco terroristico del 7 ottobre ad opera di Hamas contro Israele, la reazione decisa dal governo di Tel Aviv, guidato da Benjamin Netanyahu, l’ultima guerra israeliana contro Hamas a Gaza e contro gli Hezbollah in Libano, ha provocato danni smisurati ai popoli coinvolti, che stanno pagando un prezzo altissimo, mentre sul piano politico sembra prevalere la linea di un globale regolamento di conti nell’area medio e vicino-orientale, lasciando sullo sfondo le opzioni aperte al dialogo, con un rischio di estensione del conflitto in aumento.
Il prezzo pagato da Israele, Gaza, CisGiordania e Libano
La popolazione israeliana si sente meno sicura nel suo paese, vive una profonda crisi economica (il Pil rispetto al deficit porta un pesante segno meno in crescita di mese in mese e molte imprese falliscono); è lacerata dalla tragedia degli ostaggi rapiti; conta i suoi morti tra i militari; assiste impotente alla crescita del fondamentalismo anche all’interno dei suoi confini.
La striscia di Gaza, quell’embrione di stato palestinese, in condizioni di assedio da anni, è distrutta all’80 per cento, registra almeno 42 mila vittime civili, di cui – secondo stime prudenti di Oxfam- 11 mila bambini e 6 mila donne, mentre i feriti sarebbero circa 100 mila e gli sfollati salirebbero a ben oltre la metà della popolazione complessiva di 2 milioni.
Nei territori della Cisgiordania l’organizzazione Save the Children calcola che ogni giorno, dall’ottobre 2023, sarebbero stati uccisi o feriti almeno cinque bambini palestinesi, senza contare gli adulti, cui si sommano arresti arbitrari e abusi nei confronti anche dei minori, in un clima di crescente violenza.
In Libano, nei raid aerei israeliani degli ultimi giorni, con la minaccia che incombe dei “boots on the ground”, ovvero di un’invasione di terra nel Sud, i morti sarebbero già oltre seicento, mentre decine di migliaia di sfollati nel caos cercano rifugi di emergenza o tentano di lasciare il paese, come stanno facendo centinaia di residenti con passaporto straniero su raccomandazione dei rispettivi governi, che inviano aerei speciali con i motori accesi sulla pista, pronti a portarli via dal Libano. Questo piccolo-grande paese multietnico, risorto infinite volte dalle ceneri dei massacri (bombe, attentati, “le guerre degli altri”, come loro le chiamano) crogiuolo di culture, di etnie e di religioni sta tornando in macerie. Secondo i dati libanesi, sarebbero stati uccisi nei reiterati scontri sul confine dell’ultimo anno almeno 1900 persone.
I successi militari delle Forze di difesa israeliane (IDF) …
Significativi, dall’altra parte, i risultati indicati dall’IDF, la macchina militare al comando del Gabinetto di guerra presieduto da Netanyahu. Nelle dichiarazioni ufficiali rilasciate alla stampa si parla di innumerevoli tunnel di Hamas distrutti nella striscia di Gaza, di altri tunnel di Hezbollah identificati sul confine libanese, dell’uccisione di diverse decine di miliziani tra i primi, della decapitazione della leadership dei secondi, a cominciare dal leader supremo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, rimasto sepolto nel suo bunker alla periferia sud di Beirut, periferia densamente popolata e completamente devastata, mentre in quel punto cadevano almeno 80 bombe.
Il Gabinetto di guerra di Tel Aviv, che annovera anche esponenti ancora più a destra di Netanyahu, non conosce il detto “Le roi est mort, vive le roi!” che noi traduciamo “Morto il Papa, se ne fa un altro”? ovvero, si può uccidere un leader, si può azzerare una classe dirigente, ma ci saranno altri che raccoglieranno quel testimone.
Dove porta questo fiume di sangue?
Si parla anche di altri assassinii mirati nel Nord del Libano, con i relativi effetti collaterali, ovvero vittime civili, tra cui bambini.
… e le minacce di rappresaglia contro l’Iran dopo i missili intercettati dalla contraerea israeliana
Da ultimo, si sono aggiunte le minacce di rappresaglia del presidente israeliano contro Teheran, dopo il lancio di missili, 180, intercettati in gran parte dalla sua contraerea, che alimentano voci di un attacco in preparazione proprio nei giorni dell’anniversario del 7 ottobre, facendo salire il rischio di un coinvolgimento dei persiani nel conflitto e dunque con ripercussioni ben oltre i confini mediorientali.
I rischi di coinvolgimento dell’Iran nel conflitto e le sue conseguenze in una fase delicata di transizione politica del vertice del regime
Cominciamo a ragionare, partendo da quest’ultimo punto.
L’Iran di oggi non è certo il paese degli anni addietro, irriducibile nelle posizioni politiche del governo sciita, che aveva trovato la sua guida suprema in Ali Khamenei nell’89, chiamandolo a ricoprire la massima carica religiosa del Paese. Un conservatore, già consigliere dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni, che aveva nelle sue mani le leve economiche e politiche, nonché il controllo del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Khamenei, nello stesso ruolo per 35 anni, si era opposto a qualsiasi apertura al dialogo con l’Occidente, arrivando nel 2000 a pronunciarsi a favore della distruzione d’Israele, auspicio ripetuto negli ultimi mesi. Protagonista indiscusso di un’epoca, si ritrova però ora indebolito, su una scena diversa, una scena che deve condividere.
Di fatti significativi, ne sono accaduti tanti. Tra i più recenti, l’ondata di proteste che ha attraversato ad ogni livello, l’intero mondo persiano per settimane, nel nome di Mahasa Amini, la giovane donna uccisa dalla Polizia Morale, due anni fa a Teheran per non aver indossato correttamente l’hijab.
Poi la durissima repressione, favorita dall’ex presidente Ebrahim Raisi, uomo di fiducia proprio di Khamenei, figura intransigente e feroce, che ha fatto arrestare migliaia di manifestanti, torturati, stuprati, uccisi almeno in 500 sulle strade, una decina impiccati nelle prigioni. La cronaca ha quindi registrato l’improvvisa morte di Raisi, perito in un incidente a bordo del suo elicottero. Un incidente alquanto opaco.
Ancora, l’elezione dell’attuale presidente, Masoud Pezeshkian, un riformista, che ha avuto la meglio su un ultraconservatore e che si è subito presentato alla Tv di Stato dicendo:
“Tenderemo la mano dell’amicizia a tutti”.
Finalmente, una flebile speranza di cambiamento? Forse, ma per i più, non sarebbe che l’ennesimo gioco di prestigio di Khamenei, che intanto segue la situazione da un luogo sconosciuto, dove è stato messo al riparo da eventuali attentati.
I recenti episodi di destabilizzazione del regime iraniano da parte dell’intelligence israeliana
Non hanno del resto contribuito alla proverbiale sicurezza del regime e dunque al senso di pieno controllo che ha espresso negli anni l’Iran, né l’assassinio di Ismail Haniyeh, il capo dei mediatori di Hamas per il rilascio degli ostaggi israeliani, ucciso in una residenza presidiata dai Guardiani della Rivoluzione a Teheran, né la faccenda dei dispositivi digitali, esplosi nelle mani di numerosi dirigenti di Hezbollah in Libano, grazie all’attivazione di un detonatore, collegato ad una piccola carica esplosiva, attraverso un semplice messaggino. Secondo gli esperti, lo stratagemma che ha creato ovunque scalpore sarebbe stato frutto del paziente lavoro dell’intelligence israeliana, realizzato grazie a sponde iraniane e ad agenti infiltrati, piuttosto che a diavolerie informatiche. La diffusa corruzione, che oramai attanaglia il paese, anche nei gangli strategici, andrebbe dunque ad incidere sulla tenuta delle istituzioni. Non sul cambio di paradigma – come alcuni ipotizzano, storcendo il naso dinanzi alle aperture annunciate da Pezeshkian – ma sull’indebolimento anche fisico del suo leader Khamenei e su quello del suo sistema, durato 35 anni.
Se così fosse, non sarebbe il momento giusto per chi ragiona di un attacco al regime?
La Russia e la Cina, alleati di lungo corso del regime di Ali Khamenei
Ricorrono però alcune variabili esterne, che aumentano il rischio. Nel luglio 2024, quando le elezioni hanno portato alla svolta del presidente riformista succeduto a quello conservatore, benché al voto abbia partecipato solo la metà degli elettori iraniani, nel clima avvelenato dalla repressione delle proteste e dall’offensiva israeliana contro Gaza, sono arrivate immediate le congratulazioni, tra le altre, di Vladimir Putin e di Xi Jinping. Entrambi, alleati di lungo corso dell’Iran, ma da ultimo ancora più vicini. L’uno, perché riceve forniture militari strategiche per la guerra in Ucraina, soprattutto i droni di fabbricazione iraniana, l’altro, compratore dall’Iran di petrolio. Quasi il 90 per cento delle estrazioni complessive made in Teheran vanno in Cina.
L’incognita della corsa di Teheran verso il nucleare al centro dei possibili attacchi israeliani
Sia i cinesi, sia i russi comunque hanno fornito e forniscono armi ed equipaggiamenti al regime ed hanno avuto e hanno un ruolo in commedia in Siria. Non si tratta di un arsenale di ultima generazione, la faccenda non impensierisce affatto i tecnologi delle strategie israeliane, ma sullo sfondo c’è l’incognita nucleare. Dopo la rottura con Trump nel 2018, il defunto presidente Raisi era tornato a sostenere i massicci investimenti del passato per riprendere la corsa verso “la bomba”, ricorrendo agli alleati fidati, come ai fornitori senza scrupoli disponibili sul mercato. Se intervenisse un attacco israeliano ai siti nucleari iraniani o alle sue centrali, la situazione uscirebbe da ogni controllo.
La rappresaglia israeliana può spingersi a tanto nel nuovo quadro multipolare?
Si tratterebbe di un rischio inaccettabile. Un gioco sporco, uno schiaffo alla visione multilateralista in un mondo oramai multipolare, dove i nuovi player non si contano, dalla Turchia alle monarchie del Golfo, passando dall’Arabia Saudita, arrivando al Brasile o dal lato opposto all’India, rispetto alla politica americana, egemonica ma meno egemone, che affianca Israele. Per di più, a meno di un mese dalle elezioni americane. La rappresaglia senza confini di Israele, che sta allargando la guerra, anche per ragioni di sopravvivenza del suo governo, contestato dall’interno e dall’esterno, può spingersi a tanto?
I nuovi fronti aperti dopo il 7 ottobre 2023, l’occupazione di Gaza e l’attacco all’informazione indipendente. La denuncia de Le Monde diplomatique
Veniamo al racconto di questo anno di guerra e ai nuovi fronti aperti. La rappresaglia contro Hamas per il suo attacco terroristico del 7 ottobre, che ha mostrato al mondo la vulnerabilità di Israele, per la prima volta colpita direttamente sul suo territorio, ha escluso il ruolo dell’informazione indipendente. Quanto è accaduto a Gaza non ha trovato riscontro nei report dei corrispondenti di guerra, che giungono da tutto il mondo in occasione dei grandi conflitti. Le immagini dei bombardamenti e soprattutto degli effetti devastanti che hanno provocato sulla popolazione, sulle abitazioni, sugli ospedali, sulle scuole, sulle moschee, sulle chiese, sui campi profughi sono state centellinate e sempre filtrati dalla macchina dell’informazione israeliana.
“Hasbara” è la parola ebraica che traduce il senso della propaganda. Un articolo su Le Monde diplomatique del maggio 2024 titolava: “Hasbara: l’arte oscura di inventare la guerra” e nell’incipit del pezzo si leggeva:
“È stata una dimostrazione di spudoratezza da manuale”.
La guerra dell’informazione oscurata a Gaza …
Il blocco alla frontiera degli aiuti umanitari e dei medicinali e delle cisterne d’acqua e dei camion di cibo, che non hanno potuto raggiungere la popolazione disperata, hanno occupato poche righe nelle cronache, sulle televisioni occidentali si è visto pochissimo, scarse le notizie dirette, assenti le voci delle vittime.
I giornalisti palestinesi, che sono rimasti uccisi a decine, in un anno più di 120, in alcuni casi reporter improvvisati di video girati con i telefonini, hanno allora diffuso le immagini via internet.
Ma anche il web ha subìto censure. Il centro di ricerca palestinese “Sade social” ha documentato almeno 5.500 casi di violazione di contenuti digitali nei primi mesi del 2024. Gli algoritmi, in pratica, hanno limitato la diffusione dei contenuti palestinesi sui social. Secondo la ricerca, i vari titani dei network sarebbero stati responsabili delle violazioni in misura diversa. Instagram al 32 per cento, Facebook al 26 per cento, WhatsApp al 16 per cento, Tic Toc al 14 per cento, X di Elon Musk al 12 per cento. Dati di fonte non indipendente, certo, ma i frequentatori dei social hanno sperimentato oscuramenti e ovunque gravi difficoltà nei collegamenti.
… e le manifestazioni di protesta nelle piazze per invocare la pace che non riescono a scuotere le opinioni pubbliche occidentali …
Ciò nonostante, le piazze di tutto il mondo si sono riempite di manifestanti, nel nome dei diritti umani, contro la violenza del governo israeliano, invocando la pace. Le proteste, tuttavia, non hanno toccato le masse, non hanno scosso le opinioni pubbliche occidentali, non hanno acceso quelle arabe. I governi si sono fermati alle dichiarazioni di preoccupazione e di rammarico, i talk televisivi hanno ristretto il dibattito ai temi dell’antisemitismo, la tragedia di Gaza e le violenze in Cisgiordania sono state lasciate all’indifferenza o peggio al disimpegno civile e politico.
…. al contrario di quanto accadde nella guerra del 2006 tra Israele ed Hezbollah in Libano
Non si annuncia però altrettanto per il Libano. Nel 2006, in quella che si pensava potesse essere l’ultima guerra tra Israele ed Hezbollah, già che non potevano vincere gli uni, né gli altri, una guerra seguita direttamente da chi scrive, si entrò nel dettaglio delle atrocità. Su Beirut furono sganciate bombe al fosforo, categoricamente vietate dai protocolli delle Nazioni Unite a salvaguardia dei civili (era già accaduto ai tempi del Vietnam e purtroppo si ripete nelle altre guerre) le telecamere entrarono negli ospedali.
Le ferite che i medici non riuscivano a curare continuavano a fumare e a friggere sotto gli obiettivi, con gli occhi dei feriti spalancati nel dolore atroce che li avrebbe accompagnati alla morte imminente. Le macerie della capitale e dei suoi sobborghi a Sud, mentre si sparava su Tiro e Sidone, furono raccontate dai corrispondenti delle principali testate, l’orrore si comprimeva e si dilatava ad ogni bombardamento, le strade sempre più vuote e danneggiate erano lacerate dall’urlo delle sirene dei mezzi di soccorso.
La pressione internazionale recitò il suo ruolo. La Risoluzione Onu 1701 del 2006, approvata all’unanimità dalle Nazioni Unite decretò la cessazione delle ostilità nel conflitto tra Israele e le milizie sciite libanesi di Hezbollah l’11 agosto, dopo 34 giorni di combattimenti.
La diversa copertura dell’informazione sul corso degli attuali eventi in Libano …
Anche oggi, nei reportage dal Libano arrivano immagini e notizie.
Le televisioni hanno ripreso l’area di Dahieh abbandonata, dopo la devastazione delle bombe. Vi abitavano un milione di persone tra musulmani sciiti, cristiani e palestinesi. E mentre il numero degli sfollati continuava ad aumentare, sono state proiettate in tutto il mondo le immagini apocalittiche del luogo dove si trovava il leader Hezbollah, Nasrallah, sepolto da quella pioggia di 80 bombe, scaricate dall’aviazione israeliana sul lato sud della città. C’erano anche le bombe al fosforo, come 18 anni fa.
… e le prime reazioni esplicite del presidente Macron e del governo laburista nel Regno Unito
Il presidente Francese Emmanuel Macron ha dichiarato in un’intervista a France Inter di aver bloccato ogni fornitura di armi ad Israele. In Libano, d’altra parte, si parla in francese e la comunità che ha diritto di voto in Francia rimane numerosa. Anche la posizione britannica sulla tragedia di Gaza, cambiata di poco con l’avvento del governo laburista, sembra diventata ora più esplicita. Un diplomatico, William Patey, già ambasciatore in diversi paesi del Medioriente ha sottolineato la necessità della ricerca di equilibrio e sulle oltre 100 licenze per l’uso di armi inglesi, concesse nel 2023: ne sarebbero state intanto sospese una trentina. Non sono grandi segnali, ma finalmente arrivano e potrebbe avviarsi un processo utile a creare il fronte per la pace. Il diritto alla difesa, benché legittimo ha i suoi limiti e il diritto alla vita transita da quello di uguaglianza, senza discriminazioni di etnia, di condizione o di credo religioso.
Il supporto alla causa palestinese e i finanziamenti di Hezbollah
Hezbollah, da sempre vicino ai palestinesi, lasciati dal mondo intero alla loro inaccettabile solitudine, privati del diritto ad uno proprio Stato, nei 18 anni seguiti alla guerra del 2006 non è rimasta a guardare. Ha rafforzato le milizie nel Sud del Libano, ha lanciato razzi in territorio israeliano in scambi incrociati che hanno continuato a provocare vittime civili; ha consolidato il suo peso sociale con l’apertura di scuole e ospedali; nel penultimo governo libanese era entrato nella maggioranza, posizione che ha perduto nelle elezioni del 2022; può contare ancora oggi su diversi seggi in parlamento.
I finanziamenti arrivano attraverso fondazioni e donazioni, trova l’appoggio degli alleati sciiti, soprattutto iraniani, ma anche iracheni e yemeniti. È un sistema nel sistema, radicale e radicato.
Un auspicio alla vigilia del 7 ottobre: evitare un’invasione di terra in Libano come a Gaza
L’ipotesi dei “boots on the ground”, ovvero dell’invasione di terra, in Libano come a Gaza, avrebbe un prezzo troppo alto per tutti. Netanyahu, continuerà ad ordinare alle sue forze armate e all’intelligence di prendere di mira altri dirigenti di Hezbollah? Per quanto tempo? Con quali risultati? In alternativa?
Come già detto: “le roi est mort. Vive le roi!” Chi sceglie la guerra non può ignorarlo.
Pubblicato su www.ilmondonuovo.club del 6 ottobre 2024