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A.I. Carmen Lasorella: “Regolamentazione internazionale indispensabile” 
Intelligenza Artificiale e informazione: “Regolamentazione internazionale indispensabile, specie in campo militare”

Giornalista, a lungo inviata di guerra, autrice, dirigente Rai, poi professionista indipendente e per un momento anche ipotetica candidata alla presidenza della sua Basilicata, sono molti i passaggi di vita di Carmen Lasorella, «soprattutto una persona libera», definizione a cui tiene molto. Una donna attivissima con molti interessi e che da qualche tempo ha «il piacere di dedicarsi, tra l’altro, anche alla narrativa, che è per l’appunto uno spazio di libertà». E – racconta all’Avanti! – «sono una persona che continua a essere sempre informata e aggiornata come e più di prima sui fatti del mondo, soprattutto con riferimento ai tanti paesi dove ho lavorato. Cerco di migliorarmi in una stagione di grandi cambiamenti e di nuovi territori di conoscenza».

A questo proposito, non solo da giornalista, ma da donna interessata a tutto il circostante, ai velocissimi cambiamenti sociali e particolarmente nel mondo dell’informazione e al web, Carmen Lasorella si dedicherà anche all’informatica? 

Sì, guardando ai media, ho avviato un corso d’informatica. Ne sento la necessità, in particolare, di fronte alle rapidissime accelerazioni introdotte dall’Intelligenza Artificiale. Ci sono nuovi tools e linguaggi – non certamente computazionali, prerogativa delle macchine – che richiedono almeno la conoscenza degli elementi di base dell’informatica, non solo per comunicare, ma per muoversi meglio, in modo più funzionale, nel mondo del giornalismo di oggi, minacciato più di ieri dalla mistificazione, dall’alterazione dei fatti, dallo smarrimento dei valori etici, in un contesto marcato dalle autocrazie che vogliono condizionarlo e che ne pregiudicano anche l’autonomia economica. Per me, questo mestiere non è stato mai un impiego, ma uno stile di vita.

Da grande corrispondente di guerra, che ha anche vissuto rischi e tragici eventi nello svolgere il tuo lavoro, oggi ti stai interrogando sul cambiamento e la modalità di raccontare i fatti, tra Internet e all news ininterrotte, social media e droni, e soprattutto la diffusione dei fake e l’invasività dell’Intelligenza Artificiale. 

Proprio In questi giorni, all’apertura del Festival dello Diplomazia 2024, con l’Ambasciatore Giampiero Massolo e padre Paolo Benanti, hai promosso una discussione su “il Potere dell’AI tra Etica e Realismo” ponendo la questione della necessità di una convergenza internazionale sul tema, che peraltro aveva già trovato due importanti occasioni di incontro a Londra e poi a Seul, con il prossimo appuntamento di febbraio a Parigi,  per riflettere sui profondi cambiamenti segnati dalle tecnologie. 

Queste tecnologie cambiano il nostro modo di vivere, offrendo grandi opportunità, ma creando anche grandi rischi. Ergo, l’urgenza di limiti e di regole. Lo stesso Elon Musk, da te citato, proprio a Londra, parlando dei rischi, li aveva definiti “esistenziali” per l’umanità e così aveva fatto Kamala Harris. 

Ma a quali impegni si è giunti? Ci si è fermati agli enunciati? E stata solo una passerella?

Il 2023 è stato l’anno di svolta. Sia chiaro, l’Intelligenza Artificiale esiste da oltre cinquanta anni, ma ora è diventata generativa.

Quindi, un’intelligenza che pensa come un uomo, che può fare le attività di un uomo, che può pianificare, creare, lavorando in autonomia per raggiungere obiettivi.

Questo nuovo stato di cose ha creato un allarme generale. Io non potevo che partire da qui. Nell’ambito del Festival della Diplomazia, abbiamo ragionato di scenari geopolitici con il paladino dell’Etica, padre Paolo Benanti e l’alfiere della Realpolitik, l’ambasciatore Giampiero Massolo. Entrambi si sono espressi sui summit internazionali intervenuti e sugli auspicabili passi da compiere.

Dinanzi ad una rivoluzione epocale come quella che viviamo, dovrebbe essere logico condividere cautele e regole, (l’Europa ha varato l’AI Act) invece la strada resta in salita. Nel campo militare, per esempio, manca qualsiasi regolamentazione, a cominciare dall’Europa. Negli Stati Uniti, l’Executive Order, che declina la politica americana sull’AI non parla dell’utilizzo militare dell’AI. Le guerre in corso in Ucraina e in Medioriente ne stanno facendo largo uso, senza limiti.  I governi vogliono avere le mani libere in tema di politica militare e comunque le regole, nelle accelerazioni della tecnologia, sarebbero facilmente aggirabili e subito superate.

In sostanza, una macchina oggi può scegliere dove colpire, come e quando, in base alla sua “funzione obiettivo” come usa dirsi, con gli effetti collaterali, che finiscono in secondo piano, ma questi effetti collaterali si traducono in centinaia di morti. Diventa imbarazzante, allora, la sterilità. Vertici internazionali che restano passerelle non servono.

Una questione sempre più rilevante, quindi?

La situazione non è seria, ma grave, recitando al contrario l’aforisma di Flaiano. Si dovrebbero trovare delle linee guida, cercando di andare verso situazioni che garantiscano un controllo. Il controllo pieno su queste tecnologie, tuttavia, è assolutamente impensabile al momento. Temo che nel tempo la situazione non migliorerà. E allora? Che si faccia almeno il minimo di ciò che va fatto, perché oramai siamo immersi nella tecnologia. Pensiamo alla comunicazione, ai media, alla formazione del consenso, e via dicendo.

L’AI che genera testi, per esempio, toglierà il lavoro ai giornalisti? Dal punto di vista degli imprenditori potrebbe essere una tentazione, ridurrebbero i problemi e aumenterebbero i vantaggi economici. Ma sono i giornalisti, che dovrebbero prendere in mano il proprio destino: l’omologazione, che sta segnando la categoria e che la indebolisce, unita ad un asservimento inconcepibile ai poteri, diventa la migliore alleata del cambiamento annunciato.

La credibilità e l’autorevolezza sono valori professionali e umani, che le macchine non possono compensare, ancora. E’ con queste carte che bisogna giocare la partita.

Una stampa asservita non solo tradisce la funzione che ha in una società progredita e matura, ma può essere sostituita al meglio dalle macchine.

Io mi auguro che l’AI venga utilizzate e indirizzata molto di più di quanto non si stia già facendo verso il bene comune, quindi impiegata nella sanità, nella ricerca scientifica, nella difesa dell’ambiente e via discorrendo. L’umanità deve utilizzarla al meglio, mantenendo il diritto/dovere di scelta. Non si può rinunciare al proprio ruolo, non si può delegare.

Per esempio, io mi arrabbio ogni volta quando il computer mi chiede se sono un robot. Non è lui che deve chiederlo a me, lui è al mio servizio. L’onere della prova va invertito. Intanto, come dicevamo prima, le conseguenze le vediamo già devastanti nelle guerre.

E’ stata netta – lo hai sottolineato – la presa di posizione, ben poco ascoltata dalle grandi potenze, del Segretario generale dell’Onu sulla guerra e i conflitti…

Sì, il dato l’ha posto fortemente l’attuale Segretario generale delle Nazioni Unite. António Guterres ha detto: “Fermatevi”. Dinanzi alla situazione attuale, bisogna dire “Basta alla deregulation. Basta ai massacri. Non giratevi dall’altra parte”. Approvo totalmente quel che ha detto Guterres, dobbiamo entrare in una logica sana per poter arrivare ai framework utili a stabilire almeno ciò che si può fare nei campi più sensibili rispetto all’abuso sconsiderato dell’AI. Penso al rispetto dei diritti umani, a proposito dell’uso delle armi nei teatri di guerra, al contrasto al terrorismo, alle migrazioni.

Quella di Guterres è stata una presa di posizione forte, ma la struttura che lui dirige oramai è svuotata di potere. Non si sono create alternative all’Onu, nonostante da anni si parli dell’urgenza di riformare le Nazioni Unite. Oggi, ne paghiamo lo scotto.

Viviamo in una dimensione ibrida, sottostante quando non parallela ad una competitività permanente e minacciosa con la minaccia cyber che va dalle stelle ai fondali marini. Dobbiamo però continuare a credere negli uomini di buona volontà, in chi rispetta l’etica, di cui padre Benanti è uno dei campioni. L’Etica può soccorrerci. Dal lato opposto, c’è la realpolitik, la politica basata sugli interessi, che può fare a meno anche delle premesse ideologiche.

Siamo arrivati al punto, in cui si adattano i fatti alle necessità politiche. Ma non era Orwell che scrivevea: “Se i fatti non ci piacciono dobbiamo cambiare i fatti”? E un altro grande scrittore, come Philip Dick, meno noto, ma di grandissima visione, quasi un profeta, sosteneva che il conflitto non sarebbe più intervenuto tra gli uomini, ma tra gli umani e gli umanoidi. Noi stiamo rischiando di andare proprio in questa direzione. Si era ispirato proprio ad un libro di Philip Dick, scritto negli anni sessanta, il regista Ridley Scott, l’autore del mitico “Blade Runner”.

“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi…”. Quel film ha fatto storia.

Il giornalismo dovrebbe raccontare la realtà, ma in tempi di crisi con la crescente invasività dell’AI, tra disinformazione, notizie artefatte, narrazioni costruite dal potere politico o economico o luoghi e fonti censurate o addirittura non accessibili affatto, quali sono le risposte da parte degli operatori dei media?

Nell’incontro con Benanti e Massolo si è parlato molto di realpolitik, che tra l’altro dà il titolo all’ultimo saggio di Massolo. Ma la realpolitik, che in questo momento sembra prevalere, non si coniuga con lo stato di diritto. Ci hanno fatto credere per anni, che il controllo dell’informazione fosse il portato delle dittature. Con l’esperienza, ci siamo resi conto che così non era.

Prima citavo scrittori e registi. La narrazione letteraria e cinematografica ha diviso il mondo in buoni e cattivi, da una parte il bene, dall’altra il male. Abbiamo invece imparato che le divisioni non sono così nette. Bisogna scavare, arrivare alla radice, essere radicali. La radicalità in fondo è il ritorno all’essenza dell’uomo. Le accelerazioni tecnologiche che stiamo vivendo (subendo?), così come la dimensione ibrida intorno a noi, ci impongono di agire. Con tempismo, va esercitato fino in fondo il ruolo cui siamo chiamati in quanto esseri umani, detentori di saperi e professionisti.

Il giornalista deve rimanere un watchdog o nella maggioranza dei casi tornare ad esserlo, perché la democrazia va difesa, ogni giorno. Siamo circondati invece da “Retriver”, cani da riporto. Il giornalismo è diventato strumento di potere in quelle che si continuano a chiamare democrazie, ma che sono diventate etnocrazie, partitocrazie, plutocrazie, ecc. La radice, il valore dell’uguaglianza e l’implicito diritto è evaporato.

La democrazia deve essere vissuta nell’agire di ogni giorno. Deve marcare la sua traccia nel vissuto delle persone. Persone che invece scontano e vivono situazioni pressochè inaccettabili. I cittadini assistono impotenti alla violazione dei diritti fondamentali, l’uomo comune trova davanti a sé muri che non riesce più a superare, a fatica esercita quel minimo di libertà alla quale avrebbe diritto pienamente e che il sistema dovrebbe garantirgli.

Quindi anche un problema irrisolto nelle democrazie, ma non solo. E nello stesso mondo dell’informazione? 

L’informazione si è infiacchita. Non si è investito a sufficienza nella categoria dei giornalisti, Anche la preparazione è sempre più scadente: per affermare determinate posizioni bisogna essere capaci di motivarle. Purtroppo, però, siamo immersi in un contesto, ulteriormente immiserito dai clientelismi o dalle appartenenze. Sono situazioni che conosciamo bene.

La questione fondamentale è che l’informazione, nella sua accezione più ampia, riguarda la tenuta stessa dei governi, la ratio delle democrazie e dei sistemi nei quali abbiamo creduto e per i quali lottiamo. Il diritto/dovere di informare e di essere informati passa dall’esercizio del diritto di critica, dal dovere della conoscenza, dall’accessibilità delle fonti, dalla denuncia degli abusi, altrimenti? I “Retriver” possono essere sostituiti da umanoidi. Il testimone passerà all’AI.

Una libertà di stampa, quindi, che va riducendosi non solo per l’insofferenza del potere a tutte le latitudini, ma anche per la debolezza crescente del settore giornalistico?

Certo, la questione non tocca solo i paesi considerati autocratici, riguarda sempre di più anche i paesi e le realtà più o meno democratiche, che dovrebbero dare garanzie.

Oggi, si parla molto di “muckraking” ovvero di dell’internazionalizzazione del giornalismo investigativo per condividere dati ed energie nelle inchieste che non si fermano ai confini nazionali. Il “muckraking” era nato alla fine dell’800, con la narrazione per la prima volta, rispetto ai ceti abbienti della borghesia americana, del mondo degli altri, ovvero gli immigrati, i poveri, il grande bacino operaio cui attinse il fordismo e che fece grandi gli Stati Uniti d’America.

Personalmente, trovo normale condividere pensieri e dati con colleghi di altri paesi. Nellla mia attività di corrispondente di guerra e comunque di inviata in tanti paesi l’ho fatto regolarmente e naturalmente. La trasformazione epocale, portata dall’era informatica, d’altra parte è globale, dunque, la ricerca di soluzioni non può che essere globale ed epocale. Ci saranno dei prezzi da pagare? È ovvio, ma è nel conto. Quale sarebbe l’alternativa, altrimenti? Credo che sia una scelta obbligata.

Intervista di Roberto Pagano su www.avantionline.it

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