«La Puglia in orbita». A breve-medio termine, il territorio più smart dell’Adriatico, lungo e stretto come una pista di volo, diventa la prima stazione aerospaziale italiana
Comincia da oggi la collaborazione della giornalista e scrittrice Carmen Lasorella con la «Gazzetta».
«La Puglia in orbita». A breve-medio termine, il territorio più smart dell’Adriatico, lungo e stretto come una pista di volo, diventa la prima stazione aerospaziale italiana. Orgoglio compiaciuto, nella notizia di apertura l’altro giorno su questo giornale. Più che giustificato – ad avviso di chi scrive - e di portata «stellare», ben oltre le facili ironie e le critiche «terrestri», in una stagione di immensi problemi economici e geopolitici soprattutto alle latitudini europee. L’accordo, centrato su Grottaglie, ha visto al tavolo di Washington un imprenditore visionario quale il patron della Virgin, Richard Branson (per intenderci, l’uomo che negli anni ‘90 volle sfidare la Coca Cola e che oggi punta sui viaggi galattici) e l’Enac, l’ente italiano per l’aviazione civile. La prospettiva è significativa. Sia per quello che comporta oggi, sia per ciò che può rappresentare domani.
In pratica, un decollo dal Sud per il Sud - non solo – oltre le nostre tre effe storiche, Fashion, Food e Forniture, declinando il progresso. L’aerospaziale è quel settore che si misura in miliardi, che può arrivare a percentuali di crescita a doppia cifra. Nei prossimi 10 anni destinato a superare il trilione di dollari nella Space Economy globale. Non sarebbe male se accanto agli impieghi militari, ci fossero quelli civili. Investimenti, lavoro, visione, con la consapevolezza che quando i divari economici e culturali si fanno secolari, non servono i bonus, non bastano i passi, ma a ricominciare dal Mezzogiorno d’Italia, si deve procedere per balzi. Ce lo ha insegnato per esempio la Germania, oggi in crisi di leadership e di futuro, capace però di una riunificazione appena trentennale tra due mondi, due sistemi economici, ideologici e culturali, in un processo ancora imperfetto, strutturato però per lo sviluppo solidale a dispetto delle tentazioni populiste e retrive. Percorrendo le gelide pianure della Sassonia o ripiani diluviali del Brandeburgo, si incontra il grigio del malcontento nelle more dello stallo attuale, ma svettano centri di eccellenza, università prestigiose. Era stata fatta una scelta mirata: coniugare il capitale umano legato alle radici con le sfide culturali e tecnologiche. Peter Schneider, l’autore del saggio Die Mauer im Kopf, il muro nella testa, già venti anni fa sosteneva, che i muri vanno abbattuti prima di tutto nella mentalità. Con il suo largo sorriso, prevedeva la necessità di un passaggio di generazioni per un cambiamento possibile. Non poteva immaginare, certo, l’involuzione energetica, che non diventa transizione e la guerra, né il portato della globalizzazione, dove il capitalismo sta erodendo le basi stesse delle democrazie, svuotandole di identità, peggio, i neo-fondamentalismi laici e religiosi.
Nel nostro Sud assolato, i muri sono quelli a secco e svolgono tuttora una funzione, la crisi morde: troppe famiglie vivranno un Natale di incertezze, che richiedono risposte immediate, ma bisogna continuare a spostare avanti l’orizzonte e nelle accelerazioni tecnologiche che viviamo riuscire a non perdere l’umanità. In un bel libro appena uscito, «l’Europa a una svolta», una raccolta di saggi espressi dal Gruppo dei 20, di concerto con il Cnel (non una famiglia politica internazionale, ma un team italiano di economisti, coordinati dal professore di chiara fama Luigi Paganetto) si tratteggiano scenari e si formulano proposte. Emerge un dato, con forza: le due guerre in corso in Medioriente e in Ucraina -per la verità ce ne sono una cinquantina sparse per il mondo - riportano il Mediterraneo al centro dell’attenzione europea e globale. Ergo, la prospettiva euro-mediterranea può restituire a Bruxelles capacità d’iniziativa e il senso di una missione mirata agli equilibri da preservare nell’area, oltre a rappresentare un banco di prova per un nuovo ordine mondiale e sovranazionale, dominato invece oggi dal caos.
Il mare nostrum dei romani, il mar bianco degli arabi, il mare di mezzo per eccellenza, bacino delle grandi civiltà del passato, nel suo specifico di punto di incontro per tre continenti: Europa, Africa e Asia potrebbe tornare ad essere spazio che non divide, ma che unisce, che non separa ma avvicina: anche le soluzioni. Il nostro Paese ha dichiarato di volerci provare. Ci sono stati i vertici del G7 a presidenza italiana, allargati ai paesi africani e asiatici, le intenzioni per ora fumose del cosiddetto Piano Mattei, per il quale si comincia però a parlare di un PIF, un piano internazionale di partenariato pubblico-privato rivolto al bacino afro-mediterraneo. C’è la necessità di un impegno concreto per la pace a cominciare dal Medioriente per arrivare all’Ucraina, dalla parte delle ragioni dei popoli, che dovranno coniugarsi con quelle delle nazioni. L’isolazionismo militarizzato di Israele, criticato oramai apertamente per la sua logica di intervento senza confini, voluta dal suo presidente a scapito di qualsiasi diritto e la resistenza ad un prezzo troppo caro sulle rive del Dnepr, potrebbe finalmente riannodare i fili del dialogo in uno sforzo corale dei paesi d’Europa, portando al silenzio delle armi. Sarebbe davvero una svolta epocale e di portata globale. Eppure, ce lo ha ricordato la recente visita del re Filippo VI di Spagna: il Mediterraneo che non divide ma unisce non può non approdare alla ricerca di soluzioni sul dossier delle migrazioni ovvero sul rispetto dell’umanità più vulnerabile e dunque sulla necessità di combattere i linguaggi d’odio e il clima di paura che hanno generato nella società, perché le economie democratiche hanno bisogno di braccia, di diritti e di sviluppo sostenibile.
In Spagna, in controtendenza rispetto alla gran parte dei Paesi europei, i Pil di quest’anno dovrebbe crescere fino al 2,7 per cento, più vicino al 3 per cento secondo le stime più ottimistiche, ovvero, meglio degli Stati Uniti e di gran lunga di più di quanto non registrerà il nostro Paese, fermo allo 0,5 per cento nell’ambito di una media europea che comunque non raggiunge l’uno per cento. Il segreto? Investimenti nella sostenibilità, nei servizi e nell’immigrazione. La Spagna sta guadagnando ruolo nella prospettiva euro-mediterranea, con una politica pluralista a livello territoriale lungo linee guida nazionali nella scia dell’innovazione. Un partner per l’Italia strategico. In tre anni sono stati assorbiti oltre 700 mila stranieri , formati e inclusi nel tessuto sociale, chiamati a svolgere quei lavori che gli spagnoli avevano rifiutato. Risultano in crescita: l’agricoltura, l’economia del mare, i servizi.
Gli ultimi dati riferiti ai migranti in Italia raccontano invece di abusi nei centri di accoglienza e di controllo mafioso soprattutto nel Mezzogiorno, dove si è quadruplicata la piaga del caporalato. Possiamo superare il populismo, che nasconde l’incompetenza? Sarebbe ora. Il Sud d’Italia può aspirare al meglio.
Pubblicato su www.lagazzettadelmezzogiorno.it